Interviews


Festival del cinema africano d’Asia e America latina – Milano 2011

Donne
Conversazione con Naghmeh Shirkhan a cura di Tahar Chikhaoui e Giuseppe Gariazzo

Tre donne. Anzi, cinque. Tra il Canada, Vancouver, la comunità iraniana di quella città, e l’Iran. Tra e dentro il luogo del vivere oggi e quello dell’origine, lontano, presente negli oggetti, nelle conversazioni telefoniche, nelle immagini degli home movies, e nella lingua, il farsi, parlata dalle donne. Campo e fuori campo si specchiano, in un testo dove il gioco del riflettersi è espanso, per narrare gli strati delle identità, dei corpi, delle relazioni. L’opera prima di Naghmeh Shirkhan (nata a Teheran nel 1972 e trasferitasi negli Stati Uniti all’età di cinque anni), Hamseyeh (The Neighbor), elabora questi elementi esplorando con morbidezza e determinazione le vite di figure femminili nel loro continuo dibattersi esistenziale, nella loro costante necessità di imparare. Shirin insegna danza orientale, prende lezioni di tango, ha appena lasciato il suo amante, vive un rapporto conflittuale con la madre che sta a Los Angeles, osserva di frequente i video con la nonna nella sua casa iraniana. Leila, più giovane, pattina sul ghiaccio, ha una figlia piccola, un fidanzato canadese che abbandonerà. Inquietudini e solitudini abitano il corpo e la mente di Shirin e Leila, donne con/senza uomini vicine d’appartamento che lentamente e silenziosamente si conoscono e avvicinano (le attrici Azita Sahebjam e Tara Nazemi, alla loro prima esperienza, nella vita reale sono madre e figlia) nel corso di un film anch’esso avviato, nella forma, all’esperienza della conoscenza e alle sue diverse andature.
Prodotto e montato (insieme alla regista) da Amir Naderi (con il quale Naghmeh Shirkhan aveva già collaborato, al montaggio di Sound Barrier e Vegas: Based on a True Story), Hamseyeh ha vinto la ventunesima edizione del Festival del cinema africano d’Asia e America latina di Milano. (g.g.)

Hamseyeh è il suo primo lungometraggio. Qual è stata la genesi del film e, in particolare, come si è svolta la collaborazione con Amir Naderi?

Naderi è un artista dotato di grande esperienza e con idee precise per quanto riguarda la realizzazione di un film. Fin dall’inizio ha però voluto che io esprimessi la mia personale esperienza. Devi essere molto determinata, avere una forte personalità, riuscire a cavartela e guidare un gruppo di persone. Ma tutto ciò accade solo se conosci bene la tua storia. Per Naderi era fondamentale che io conoscessi la mia storia, che io l’avessi scritta, che avessi una visione di quel che volevo fare. Perché più hai chiare queste cose, più facile sarà costruire il resto. Ammiro Naderi, ora anche più di prima, perché mi ha dato completa libertà per fare ciò di cui avevo bisogno, ha rispettato la mia personalità. A posteri, direi che è stato come un mentore, mi ha guidato dandomi consigli su come affrontare situazioni a me estranee, permettendomi in tal modo di crescere. Non puoi fare un film da sola, hai bisogno dell’aiuto di molte altre persone: gli attori, i tecnici, chi prepara il cibo… Si tratta di una grande collaborazione.

L’ha aiutata ad aiutarsi…

Esatto. È stata la cosa più importante, quella di cui avevo necessità. Né i miei genitori né mio marito potevano dirmi cosa fare… Sono sempre stata molto indipendente, e Naderi non ha mai messo in discussione la mia indipendenza. Conosceva la situazione in cui mi trovavo. Esiste un dramma nel fare un film, non solo se stai lavorando su un film che contiene degli eventi drammatici. Nel processo del fare un film devi trattare con le persone, e può essere molto stressante. Naderi mi diceva solo: Naghmeh, è normale, hai soltanto bisogno di individuare quello che ti serve, e essere preparata. È stato un magnifico insegnante. Sono stata davvero fortunata: ha visto in me quel che io non avevo visto in me stessa. Ed è stato molto felice del risultato finale, ha notato la mia passione in tutte le fasi del processo, giorno per giorno. Nei tre mesi di riprese in Canada Naderi è stato presente per circa la metà, intuendo, forse più di me, che stavo facendo un buon lavoro. E per una giovane filmaker è essenziale sapere che sta procedendo nella giusta direzione.
Tornata a New York, ho fatto un primo montaggio del film, poi, insieme a Naderi, quello definitivo. In tutto, il montaggio ha preso otto mesi, lavorando dodici ore al giorno. Naderi sapeva quello che volevo, ha una fantastica conoscenza della struttura e della storia e sa come creare un’onda emotiva. Ed è quello che abbiamo fatto, portando così a termine il processo nel migliore dei modi in quelle condizioni, con soldi e tempo limitati. Ho già lavorato con lui, quindi conosco il suo metodo di montaggio, e lui sa come lavoro, per cui si è instaurata una buona relazione.

Ci siamo interrogati sul rapporto fra i tre personaggi e i luoghi che abitano. Nello specifico, le dinamiche che s’instaurano fra loro ci hanno fatto pensare a qualcosa che ha a che fare con lo specchio, a una sorta di specularità che prende forma. Vale a dire, i personaggi rinviano gli uni agli altri e, piuttosto che essere protagonisti di un dramma, agiscono come in una dinamica di corrispondenza speculare. Li ha pensati in questo modo fin dall’inizio?

Tutte le mie idee erano contenute nella sceneggiatura. Ho pensato molto alla relazione fra le due protagoniste adulte, Shirin e Leila; fra loro e Parisa, la bambina di Leila; fra Shirin e le donne della sua vita lasciate in Iran: la madre, che si sente solo al telefono; la nonna, che compare nei video. In effetti, potremmo essere di fronte a una sola figura femminile, ogni donna rappresentando un diverso periodo della vita, cinque età differenti. È un passaggio, si va dalla bambina all’anziana, quelle donne si guardano nel loro proprio riflesso. Per me era molto importante mostrare che queste donne sono interconnesse al punto che potrebbe trattarsi di un’unica persona nel corso di un’unica vita. Ma sono cinque diversi personaggi. Potrebbe essere la mia vita, in cinque momenti diversi.

Di questi cinque momenti, Shirin costituisce il centro…

Tutte e tre lo sono. Anche se la storia ruota attorno a Shirin perché lei è nel centro, in termini di età. Ma il punto di vista è sempre di tutte e tre, direi un mélange…

Tornando agli specchi. Vedendo il film si sente, si percepisce la loro presenza anche quando sono assenti, a proposito della specularità cui accennavamo e del gioco di riflessi rappresentato. È un film dove ci sono specchi senza specchi. Come se lei fosse là e avesse cinque specchi davanti che riflettono altrettante figure e situazioni…

Perché in diversi momenti le attrici guardano in macchina, ti guardano. Quando guardo dei film sono coinvolta, mi sento come se il film mi stesse parlando. Per cui volevo fare un film dove gli spettatori provassero le stesse reazioni, un film che parlasse loro, un film che fosse una conversazione fra il pubblico e i personaggi, dove chi sta in sala partecipa a quello che accade sullo schermo. È come rompere le barriere. Ho semplicemente sentito che non era solo una storia che riguardava quelle donne, ma una storia nella quale fortunatamente molta gente poteva riconoscersi.

Speculari alle tre donne sono i due appartamenti dove vivono e il corridoio che li unisce. Spazi che entrano sempre più in relazione, che finiscono per diventare un unico luogo. All’inizio le porte sono del tutto chiuse, poi, lentamente, si aprono, così come le donne fra loro. C’è un dialogo che nasce anche fra i due appartamenti…

La location è un aspetto fondamentale della storia. La location è un personaggio che aggiunge significato. Volevo che l’edificio, gli appartamenti fossero anonimi perché li vedo come uno sfondo legato alle vite di Shirin e Leila. Loro sono anonime, il palazzo è anonimo, gli appartamenti sono simili, ma si specchiano l’uno nell’altro, e il corridoio può anche essere visto come una strada che, nella sua nudità, mostra non solo la claustrofobia di un ambiente ma anche l’isolamento e la solitudine.

Anche gli oggetti che si trovano nei due appartamenti sono rilevanti e dicono bene il carattere di Shirin e Leila.

Sì. Non avevamo tanto denaro e mezzi, ma avevo una precisa idea per come allestire i due ambienti e ho speso molto tempo per renderli come desideravo. Era mia intenzione che l’appartamento di Shirin richiamasse la sua casa in Iran; l’attrice, Azita Sahebjam, ha raccolto molti degli oggetti presenti, le fotografie, i tessuti, gli abiti, così abbiamo potuto scegliere con attenzione fra i differenti pezzi quelli di cui avevamo bisogno per esprimere questa sorta di ambiance. Abbiamo creato ogni dettaglio. L’altro appartamento doveva essere l’opposto, con oggetti sparsi, scatole, giocattoli… Sempre per creare con pochi mezzi un feeling, dove ogni piccola singola cosa è importante allo scopo di trasmettere uno stato d’animo. Hamseyeh è un moody film.

Nel corridoio c’è la scritta No Exit. I personaggi non possono deviare percorso, devono confrontarsi con se stessi e con gli altri.

Ci sono diversi punti che affiorano nel film a proposito dell’idea della nostalgia, del passato che ti trattiene. Poi c’è, però, un’altra idea, che riguarda il presente, le nuove vite di queste donne e le nuove opportunità che si presentano loro, qualcosa che le aiuta ad andare oltre, qualunque sia lo sbocco del loro percorso. C’è davvero “no exit”. Che cosa fai per andare avanti? Quale sentiero scegli al fine di raggiungere il prossimo obiettivo? È una questione esistenziale, sono cose che ho sempre pensato e che mi riguardano, credo sia un aspetto del vivere in esilio, del confrontarti continuamente con un diverso tipo di realtà. Da qualche parte nella tua mente puoi pensare che esista una scelta, che forse puoi tornare indietro, ma la realtà ti dice che non è possibile e che hai bisogno di fare il meglio che puoi.

Essendo nel film i personaggi maschili molto rari, e avendo Shirin espresso un suo certo disinteresse e allontanamento dagli uomini, si è tentati di pensare, anche a causa del gioco di specchi, che potrebbe esistere una sorta di relazione fra Shirin e Leila, con la bambina che, inoltre, sembra voler formare una coppia, avvicinare le due donne.

È la storia di una relazione fra donne, tra le madri e le figlie si esprimono questi meccanismi di vicinanza e complicità che non hanno a che fare con la sessualità. Per me questo aspetto è importante perché nel film non voglio affermare che Shirin ha bisogno di stare con un uomo. Ha dei complessi molto gravi, profondi, gli uomini non la interessano non perché sia lesbica ma perché ha altre cose non risolte nella sua vita. È una donna che ha perso il tempo in cui avrebbe potuto essere una madre. Questa è spesso una situazione che si riscontra con donne di quella generazione perché gli uomini non le capiscono. Lei è sola, indipendente, è un’artista, danza, e non ci sono molti uomini iraniani in grado di comprendere queste cose. E forse, nel tentativo di trovare la persona giusta, ha bisogno di risolvere alcuni di questi problemi. Non puoi davvero innamorarti fin quando non impari a rispettare e capire te stesso. Credo che per quella generazione di donne sia arduo in quanto, a loro volta, non sanno cosa vogliono da un uomo, per cui i rapporti sono sempre complicati, tesi e spesso ciò non ha a che vedere con il sesso ma con la mente. Ed è quello che manca a lei.

Anche le due scene nelle quali Shirin e Leila si separano dai loro amanti sono speculari: due camere d’albergo, gli uomini ripresi di schiena, nessun dialogo, le donne che si allontanano…

Sì, ancora una volta si specchiano l’una nell’altra. È stata una scelta cosciente, iniziare con Shirin che lascia il suo uomo e finire con Leila che abbandona il fidanzato. A quel punto delle loro vite quella era la soluzione da prendere, la scelta su cui concentrarsi. Per me quelle due scene rappresentano una sorta di cerchio.

La prima immagine del film è dedicata alla nonna. L’anziana occupa tutto lo spazio, è filmata da lei nella sua abitazione iraniana e si ha l’impressione che tutti gli altri personaggi femminili siano in realtà l’espressione multipla di quel personaggio. Come se la nonna fosse il personaggio matriciale, e proprio perché lo si vede appena acquista maggiore importanza - insieme a quello della madre, che non si vede mai. È l’origine…

È l’origine, è una rappresentazione del paese, luogo sempre presente anche se non ci si pensa, anche se non si sentono le voci o non si vedono i volti. Ma non c’è nostalgia, del tutto, anzi è il contrario, simboleggia qualcosa con cui bisogna confrontarsi, che va compreso. Ho girato quelle scene in Iran con la mia piccola videocamera, con il senso del film familiare, per cui esse sono state inserite nel film con un altro formato. Le ho fatte tre anni fa, prima di iniziare la produzione e di parlare con Naderi; la sceneggiatura invece era già stata scritta. Sono andata in Iran e ho detto a mia nonna che l’avrei filmata, pregandola però di non dire il nome di mia madre, perché volevo sembrasse che lei stesse parlando con qualcun altro. Ho sempre saputo che è una persona molto religiosa, le ho detto di coprirsi il capo perché avrei mostrato quelle immagini ad altra gente. Ed è stata molto collaborativa. Per me si è trattato inizialmente di uno studio, in attesa delle riprese, non destinato al film, poi le circostanze hanno fatto sì che quel materiale venisse utilizzato.

Nel film il silenzio ha un ruolo significativo. Le parole sono importanti, ma forse il silenzio, e il modo di filmarlo, sospendendo lo sguardo, lo è ancora di più.

Il silenzio è un linguaggio. Non hai necessariamente bisogno di parlare per esprimere i tuoi pensieri. Inoltre, è una questione culturale. Gli iraniani comunicano molto attraverso i gesti, gli occhi, puoi dire molto semplicemente con uno sguardo. Nel cinema, poi, credo che il silenzio ti dia la possibilità di osservare meglio le immagini, che sono l’elemento principale, ti conceda un momento di puro piacere nel vedere quel che sta accadendo. I dialoghi sono importanti, ma la loro assenza contribuisce profondamente a creare un mood. In tal senso ho lavorato molto sul suono, sulla sua presenza sottotraccia, come ulteriore elemento di sospensione, che, come il silenzio, espande gli avvenimenti, li consegna alla loro espressione visiva.

I personaggi cercano di trovare la giusta andatura, il giusto movimento interiore e esteriore. A tal proposito la danza assume un ruolo di primo piano. Da un film orientale ci si attenderebbe qualcosa di folkloristico, invece qui la danza, diremmo, è strutturante, determina una struttura, partecipa alla costruzione del testo. È un film che parla del cammino da compiere e del procedimento da attuare per compierlo allo scopo di ritrovarsi.

È un ottimo modo di interpretare il film. Hamseyeh è costruito sui contrasti: interiore/esteriore, stasi/movimento, camminare/danzare il tango o sul ghiaccio. I contrasti fanno parte della vita reale, era quindi un modo per portare nel film una dose più intensa di realtà. Il movimento è quando ti senti libero, per i miei personaggi rappresenta una forma per sentirsi liberi, per vivere. La nonna cammina, è chiusa in un luogo, ma si muove. Si creano così delle coreografie. Durante la progettazione e le riprese ho sempre pensato all’aspetto coreografico, la coreografia è presente nei movimenti della macchina da presa, nelle relazioni fra i personaggi. La danza fa parte della mia vita. Così come amo il teatro e la fotografia. Anche in un’immagine fotografica o in un dipinto c’è movimento. Tutte queste cose hanno ispirato il mio modo di rappresentare la storia. Senza dimenticare il cinema, certo… Ho visto molti film, ma ho anche vissuto molto. Non mi considero solo una regista, penso che quando partecipi alla vita diventi un’artista migliore. Devi vivere, ed essere curioso, se non vivi non puoi esprimere.

Che cos’è per lei la durata nel cinema? Nel suo film riteniamo sia uno degli elementi imprescindibili, che si incide sia nelle sequenze lunghe sia nelle brevi inquadrature.

È una domanda che mi sono posta e che mi pongo costantemente. Se avessi deciso di alterare, cambiare la durata del film, come mi sarei comportata? Sarebbe stata una scelta ardua, in quanto credo che la durata aiuti a creare un feeling, il momentum che accadrà. Ogni scena è connessa con quella precedente, e tutto è molto legato. Per ottenere una profonda conoscenza di qualcosa è necessario spendere, trascorrere del tempo con essa. La storia, forse, avrebbe potuto essere più breve, ma ho sentito che per entrare davvero in essa bisognava darle il tempo di svilupparsi in una sua personale durata. Ci sono momenti in cui non vorresti vedere certe cose, ma lo fai, e quando l’hai fatto sei contento perché in qualche modo sei stato rapito. Questo è il desiderio. Mi piace il cinema di Jacques Rivette o Philippe Garrel. Certo, avrebbero potuto fare dei film più brevi, ma la durata dei loro film è indispensabile per creare un’atmosfera altrimenti inarrivabile. Ed è una questione, quella della durata, che ho affrontato anche con Naderi, durante il montaggio. Non ho problemi a tagliare, e insieme abbiamo trovato l’equilibrio che necessitava al film, per dare il tempo ai personaggi, alla narrazione, di evolversi. E alla fine il risultato è stato soddisfacente.

In questa idea di cinema, e di vita, lei non chiude la storia, le vite dei personaggi. La fine del film è aperta…

Assolutamente. Mi piacciono i film in cui sono io a poter decidere di porre fine alla storia. E siccome il cinema, per me, specchia la vita, non esiste mai chiusura, fino al giorno in cui si muore. Per questa ragione non amo i film che cercano di forzare in me un happy ending, perché penso che gli happy endings siano forzati. Forse si tratta di una sensibilità moderna, infatti amo i film del passato che pure contengono una chiusura, come quelli della Hollywood classica - sono cresciuta vedendoli. Ma i film che mi hanno segnato sono sempre stati quelli che mi hanno lasciato la curiosità di sapere cosa accadrà in seguito. Credo sia un rispetto per lo spettatore, per la sua intelligenza, che deciderà il futuro del testo: potrà essere magnifico, triste, o magari potrà non accadere nulla…

(trascrizione a cura di g.g.)

Filmcritica numero 614 aprile 2011